venerdì 30 dicembre 2016

Il mito 1975-81: TdS e Bankitalia, non fu "finto debito"


La Banca Centrale era obbligata ad acquistare i titoli italiani sul mercato primario, ma chiaramente ha rivenduto tutto sul mercato secondario, e lo Stato ha pagato il suo debito agli investitori. Smentito il mito che vuole Bankitalia detenere i titoli italiani senza rimborso, creando in questo modo un “finto debito”

Di Daniele Pace

In questi anni di crisi, molti economisti contro l'euro, e tanti cittadini in cerca di verità, hanno a lungo parlato del divorzio tra il Tesoro e Banca d'Italia, e in particolare dell'obbligo, da parte della banca centrale italiana, di acquistare i titoli sul mercato primario, finanziando gratuitamente così il debito pubblico dello stato. Un mito che non regge alle meccaniche di mercato e monetarie, e agli stessi dati economici forniti dagli organi ufficiali.

La storia dei titoli di stato acquistati da Bankitalia


La storia è piuttosto nota solo per una parte, quella cara ai cosiddetti sovranisti anti-euro, ma ha anche una seconda parte, che smentisce la “ricetta” del “finto debito” per risolvere la crisi del debito sovrano.
Con la riforma del mercato dei BOT del 1975, Tesoro e Banca d'Italia siglarono un accordo in cui la Banca Centrale si impegnava ad acquistare i titoli invenduti alle aste pubbliche, sul mercato primario. Fin qui la cronaca è assolutamente corrispondente alla realtà, ma la mitologia vuole che la banca si tenesse i titoli “in pancia”, senza pretenderne il rimborso e tanto meno gli interessi, creando così un “finto debito” per lo Stato, che si sarebbe finanziato gratuitamente attraverso la propria banca centrale. Ma la realtà dei fatti è che Banca d'Italia non tenne mai i Titoli di Stato “in pancia”, ma li rivendette tutti, e subito, sul mercato secondario ad altri investitori, che chiaramente furono rimborsati dallo Stato alla scadenza, oppure li rimisero sul mercato a loro volta, a seconda delle loro esigenze. Chiaramente, alla scadenza, i titoli dovevano essere rimborsati, e non ci fu nessun “finto debito” non rimborsato alla Banca d'Italia da parte della Repubblica italiana.
Questo risulta chiaramente dai dati forniti dalla Banca Centrale (e dalle logiche dei mercati e regolamenti), e in particolare dal paper intitolato “Monetary policy and fiscal dominance in Italy from the early 1970s to the adoption of the euro”, a cura di Eugenio Gaiotti ed Alessandro Secchi per conto della stessa banca.
Un altro paper che aiuta a far luce su quel periodo, è quello di Franco Passacantando, “La creazione di un assetto istituzionale per la stabilità monetaria: il caso italiano”, in cui l'ex Managing Director del International Institutions & Fora e OECD per Banca d'Italia, avanza anche altre motivazioni alle scelte della banca centrale italiana.

Il paper di Secchi e Gaiotti è abbastanza chiaro sull'argomento, a pagina 13, quando inizia a sviluppare le circostanze che portarono a quel periodo concluso con il divorzio:
“Since 1969, it was decided that the Bank was empowered (not obliged) to subscribe the unsold amounts of securities on the primary market and resell them on the secondary market." [Salvemini, 1989] (Dal 1969, fu deciso che la banca fosse incaricata (non obbligata) di sottoscrivere i titoli invenduti sul mercato primario, per rivenderli sul mercato secondario)

Nelle pagine successive (pag 14 e 15), i due autori precisano anche il periodo a partire dal 1975:
“In 1975, a comprehensive reform of the placement system for Treasury bills was introduced, [...] The reform included a provision whereby the Bank of Italy, which previously had no obligation to intervene on the primary market, would act as a residual buyer at auctions of government securities. […] The control of the monetary base required the Bank’s continuous presence in the form of outright interventions on the secondary market for government securities, with a view to placing on the market the securities that were acquired at auctions. Outright operations in Treasury securities, which were almost non-existent in the 1950s and 1960s, therefore acquired prominence as the main tool of monetary policy to control the monetary base.” (Nel 1975, fu introdotta una riforma esauriente del sistema di collocazione dei titoli del Tesoro […] La riforma includeva la condizione, secondo la quale, la Banca d'Italia, che prima non aveva obblighi di intervenire sul mercato primario, sarebbe stata l'acquirente residuale alle aste dei titoli pubblici. […] Il controllo della base monetaria richiese la continua presenza della banca nella forma di interventi completi ed immediati sul mercato secondario dei titoli governativi, con lo scopo di piazzare sul mercato, i titoli che aveva acquistato alle aste. Le operazioni complete in titoli del Tesoro, che erano quasi inesistenti negli anni 50 e 60, acquisirono il rilievo di principale mezzo di politica monetaria nel controllo della base monetaria)

Infine a pagina 25:
“the Bank of Italy intervened heavily with sales on the secondary market and with refinancing operations (both included in the “policy” channel) to counter the excessive growth in liquidity, fully or partially offsetting monetary base creation by the Treasury. After 1975 outright secondary market operations were used to regulate the monetary base and sterilise the effects of the Treasury channel and were therefore primarily aimed at destroying liquidity.”
(la Banca d'Italia intervenne massicciamente con vendite sul mercato secondario e operazioni di rifinanziamento per rispondere all'eccessiva crescita di liquidità, compensando totalmente o parzialmente la creazione di base monetaria del Tesoro [attraverso il finanziamento del debito, NdA]. Dopo il 1975, operazioni di mercato secondario furono usate per regolare la base monetaria e sterilizzare gli effetti del canale del Tesoro, ed erano per tanto mirate principalmente alla distruzione di liquidità)

Come è chiaro ed evidente, Banca d'Italia acquistava i titoli dal Tesoro, ma li piazzava, immediatamente e completamente (outright), sul mercato secondario, indicando anche le motivazioni che erano alla base anche del dibattito politico-economico di quegli anni. I dati forniti da Banca d'Italia e riassunti nel grafico di pagina 27, mostrano come la banca abbia sempre piazzato subito, e interamente, sul mercato secondario, tutti i titoli acquistati dal Tesoro.





Anche Passacantando, nel suo paper a pagina 40, evidenzia come “Sebbene la Banca si fosse impegnata ad acquistare tutti i titoli invenduti, essa poteva poi rivenderli sul mercato: il grafico 2 mostra una correlazione negativa quasi perfetta tra sottoscrizioni nette della Banca d'Italia e acquisti netti di mercato aperto. […] In periodi di tassi d'interesse in forte crescita la Banca d'Italia subiva perdite di bilancio dovute alla vendita di titoli a prezzi inferiori a quelli di acquisto. Intervenendo sul mercato secondario, le autorità monetarie potevano, in circostanze normali, raggiungere l'obbiettivo di creazione di moneta desiderata [...]”





I motivi della rivendita dei titoli sul mercato secondario


I motivi del collocamento sul mercato secondario dei titoli del Tesoro, acquistati alle aste dalla Banca d'Italia, sono chiari scorrendo i due paper, e possono essere evidenziati anche nelle poche parole riportate sopra.

In primo luogo, la Banca d'Italia prefiggeva come obbiettivo della sua politica monetaria, il controllo dell'inflazione, seguendo la logica bancaria secondo la quale l'inflazione è determinata da un'eccessiva liquidità nel sistema. Per questo, come evidenziano Secchi e Gaiotti a pagina 25 (Dopo il 1975, operazioni di mercato secondario furono usate per regolare la base monetaria e sterilizzare gli effetti del canale del Tesoro, e erano per tanto mirate principalmente alla distruzione di liquidità), la Banca d'Italia, vendendo i titoli sul mercato secondario, poteva ritirare liquidità in circolazione e così sterilizzare gli effetti derivati dall'acquisto dei titoli del Tesoro con nuova moneta, e al contempo avere liquidità per i nuovi acquisti. Questo appare chiaro anche in Passacantando: “Intervenendo sul mercato secondario, le autorità monetarie potevano, in circostanze normali, raggiungere l'obbiettivo di creazione di moneta desiderata”. Chi ha letto il mio libro “Il complotto del fruttivendolo”, sa che non do molto credito alla Teoria Quantitativa della Moneta, ma in questo articolo riporterò solo le motivazioni addotte da Bankitalia, nel dibattito politico-economico dell'epoca, per il divorzio dal Tesoro, e in particolare per la questione della collocazione dei titoli sul mercato secondario, focus di questo scritto, per dimostrare come non vi fu un “finto debito” nel finanziamento allo Stato tra il 1975 e il 1981 (anche se gli acquisti proseguirono per qualche altro anno).

In secondo luogo, leggendo Passacantando, si evidenzia come vi fossero degli squilibri di bilancio per Banca d'Italia, in quanto, in un periodo di bassa richiesta di titoli, come dimostrato nel suo grafico n.2, via Nazionale fosse costretta a delle perdite per il collocamento sul mercato secondario a prezzi inferiori di quelli di acquisto fino al 1981. Per questo motivo, non solo la Banca d'Italia doveva collocare i titoli sul mercato secondario, ma nel caso non fosse riuscita a rivendere quelli in eccesso detenuti nel suo portafoglio (ad eccezione di quelli detenuti per politiche monetarie), sarebbe dovuta essere rimborsata dal Tesoro alla scadenza, interessi compresi. Neanche le banche centrali possono permettersi degli squilibri di bilancio, e non a caso, anche i QE, avvengono sempre a fronte di acquisti di obbligazioni.

Conclusioni


Lo scopo di questo articolo non è quello di parteggiare per una o l'altra parte, ma solo ristabilire la verità su quello che successe in quegli anni per quel che riguarda “il finto debito”, non pagato, che lo Stato avrebbe contratto con la Banca d'Italia. In realtà non vi fu nessun finto debito, ma solo un'inversione di quelli che erano i meccanismi di collocamento dei Titoli di Stato. Se prima del 1969 (in via volontaria) e del 1975 (in via obbligatoria), la Banca Centrale non era ammessa alle aste sul mercato primario (e agiva solo su quello secondario), successivamente, fino al 1981, e anche oltre (in via di nuovo volontaria), la banca fu obbligata a finanziare il debito dello Stato, ma essa rivendeva subito tutti i titoli sul mercato secondario, per motivi di bilancio e politica di controllo dell'inflazione. Il debito era assolutamente reale, in quanto agli investitori del mercato secondario non si poteva certamente negare il rimborso dei titoli (e nemmeno a Banca d'Italia), pena il default. Lo Stato trovò semplicemente una scorciatoia per collocare immediatamente tutti i titoli (a Banca d'Italia) ad un tasso da lui scelto, “scaricando” sulla banca l'onere del collocamento agli investitori secondari a prezzi inferiori per la stessa banca. In questo modo lo Stato aumentava comunque il proprio debito pubblico, pur non curandosene all'epoca, forse seguendo la frase attribuita a Ronald Regan (Il debito pubblico è abbastanza grande da poter badare a se stesso).
Chi mi legge, sa che se i Titoli, ma anche l'intero settore bancario, fossero aboliti, stapperei subito la più costosa bottiglia di Champagne in commercio, e quindi questo articolo non vuole deludere o esaltare nessuno, ma solo sfatare quel mito del “finto debito”, un accadimento mai successo, e che nemmeno potrà succedere, per gli stessi motivi per cui la banca collocò i titoli sul mercato secondario. Anche se non si fosse d'accordo su questi motivi, un cambiamento nell'ideologia dominante in economia al riguardo dell'inflazione e delle meccaniche dei Titoli di Stato, potrebbe cambiare gli eventi.
Dunque la Banca d'Italia non si comportò come mera tipografia di Stato, ma esattamente come qualsiasi altra banca dealer incaricata ed autorizzata ad operare sul mercato primario, con un conseguente aumento del debito pubblico. La Banca d'Italia, anche se si tornasse alla Lira, mai potrebbe comportarsi come tipografia, senza un cambiamento strutturale e legislativo dell'intero sistema monetario, ma a quel punto, tanto varrebbe che fosse abolita e che lo Stato iniziasse (e non tornasse, in quanto non lo ha mai fatto) a stampare/creare elettronicamente la valuta nazionale senza emettere titoli. Una vera rivoluzione monetaria, che abolisca totalmente l'attuale sistema.

domenica 25 dicembre 2016

La tregua di Natale 1914: Quando l’uomo dice no alla guerra… Buon Natale a tutti


di David G. Stratman
Il giorno di Natale del 1914, nel primo anno della prima guerra mondiale, i soldati tedeschi, inglesi e francesi disobbedirono ai loro superiori e fraternizzarono con “il nemico” lungo due terzi del fronte occidentale. Le truppe tedesche innalzarono alberi di Natale fuori delle trincee con le scritte “Buon Natale.” “Voi non sparate, noi non spariamo.” A migliaia, le truppe attraversarono la terra di nessuno su cui giacevano sparsi corpi in decomposizione. Cantarono i canti di Natale, si scambiarono le foto dei cari rimasti a casa, condivisero le razioni, giocarono a calcio, arrostirono persino alcuni maiali. I soldati abbracciarono gli uomini che solo poche ore innanzi cercavano di uccidere. Si misero d’accordo per avvertirsi se i superiori li avessero obbligati a imbracciare le loro armi e di mirare in alto.
Agli alti comandi, di entrambe le parti, vennero i brividi. Stava succedendo il disastro: soldati che dichiarano la loro fratellanza e che rifiutano di combattere. I generali, da tutte e due le parti, dichiararono questo pacificarsi spontaneo come tradimento e pertanto conforme alla corte marziale. Entro marzo 1915 il movimento di fraternizzazione era stato sradicato e la macchina di morte rimessa completamente all’opera. Al momento dell’armistizio nel 1918, quindici milioni di persone erano state massacrate.
Poche persone sanno la storia della tregua di Natale. I capi militari non hanno infranto le loro regole per renderla pubblica. Il giorno di Natale del 1988, una cronaca nel Boston Globe accennava che una radio FM locale aveva mandato in onda “Natale nelle trincee,” (Christmas in the trenches) una ballata sulla tregua di Natale, parecchie volte e c’era stato un effetto stupefacente. A Boston, la canzone era diventata il pezzo più richiesto durante le feste su parecchie stazioni FM. “Ancor più stupefacente del numero di richieste avute è la reazione seguente alla ballata degli ascoltatori che non l’avevano mai sentita prima,” ha detto il conduttore. “Mi telefonavano profondamente commossi, a volte in lacrime, chiedendo, ‘Cosa diavolo ho appena ascoltato?’”
Penso di sapere perché gli ascoltatori si erano commossi. La storia della tregua di Natale va contro la maggior parte delle cose che ci hanno insegnato circa la gente. Ci fa dare un’occhiata di un mondo come vorremmo che fosse e dice, “Questo, una volta, è veramente accaduto.” Ci ricorda di quei pensieri che manteniamo celati, fuori della portata della TV e degli articoli di giornale che ci dicono come la vita umana sia insignificante e meschina. È come sentire che i nostri desideri più profondi in verità sono giusti: realmente il mondo potrebbe essere differente.
Estratto da “We CAN Change the World: The Real Meaning of Everyday Life” di  David G. Stratman (New Democracy Books, 1991).
Tradotto per www.disinformazione.it da Stefano Pravato
La tregua di Natale…da Wikipedia
La cosiddetta tregua di Natale ebbe inizio la vigilia di Natale del 1914, durante la prima guerra mondiale, quando i soldati tedeschi iniziarono a decorare la zona attorno alle loro trincee, nella regione di Ypres (Belgio), per il Natale. Cominciarono mettendo delle candele sugli alberi, quindi continuarono le celebrazioni cantando canzoni natalizie. I soldati britannici nelle trincee sull’altro lato del fronte risposero intonando canzoni natalizie in inglese.
I due schieramenti continuarono scambiandosi a voce degli auguri natalizi. Subito dopo ci furono inviti a incontrarsi nella “terra di nessuno”, dove avvenne lo scambio di piccoli doni: whisky, sigari, cioccolata e simili. L’artiglieria nella regione restò muta quella notte. La tregua permise inoltre il recupero delle salme dei soldati caduti. Si svolsero delle vere e proprie cerimonie di sepoltura, nelle quali soldati di entrambe le parti piansero assieme i compagni morti. In un funerale nella “terra di nessuno”, soldati tedeschi e britannici si riunirono assieme per leggere un passo del Salmo 23:
« Il Signore è il mio pastore, non mi fa mancare nulla. Su prati verdi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Il Signore mi dona nuova forza, mi consola, mi rinfranca. Su sentieri diritti mi guida, per amore del suo nome. Anche se andassi per una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me. »
La tregua si estese ad altre zone del fronte, ed esiste anche la storia di un incontro di calcio tra soldati scozzesi e sassoni, che terminò quando la palla andò ad urtare un tratto di filo spinato sgonfiandosi.
In molti settori la tregua durò per tutto il giorno di Natale, ma in alcune zone continuò fino a Capodanno. Alla tregua presero parte sia i soldati che i loro sottufficiali e ufficiali.Va notato che allo scoppio del conflitto la propaganda si adoperò molto per dipingere il nemico come privo di scrupoli o di morale, ed assicurava inoltre che la guerra sarebbe finita prima di Natale.[senza fonte] Durante la tregua i soldati scoprirono che nelle trincee nemiche si trovavano uomini esattamente come loro, e che anzi avevano molto più in comune con questi soldati, rintanati in trincee umide e pericolanti come le loro, che non con i loro più alti superiori.
I comandanti britannici John French e Horace Smith-Dorrien diedero ordine che una tale tregua non si ripetesse mai più. In tutti gli anni di guerra che seguirono, vennero ordinati bombardamenti di artiglieria alla vigilia di Natale per assicurarsi che non si verificassero più interruzioni nei combattimenti. Inoltre le truppe vennero fatte ruotare in diversi settori del fronte per impedire che familiarizzassero apertamente con il nemico. Nonostante queste misure ci furono ancora pochi incontri amichevoli tra i soldati dei due schieramenti, ma su una scala molto minore rispetto a quanto avvenne nel 1914.
Croce, posta vicino Ypres nel 1999 da parte dei “Khaki Chum”, a ricordare il luogo in cui avvenne la tregua di Natale
Le reazioni da parte dei comandi generali di entrambi gli schieramenti furono molto dure e portarono a condanne a morte di molti soldati, accusati di alto tradimento. Durante la Pasqua del 1916 una tregua simile si verificò sul fronte orientale.
Nel 1999, i cosiddetti “Khaki Chums” (ufficialmente: l’Associazione per il Ricordo Militare) visitarono una parte delle Fiandre e ricrearono la tregua di Natale, vivendo come vissero i soldati britannici della prima guerra mondiale, privi delle comodità moderne.
Diversi libri sono stati scritti sulla tregua di Natale, tra cui Silent Night: The Story of the World War I Christmas Truce, di Stanley Weintraub, che riporta la cronaca degli eventi da testimonianze di prima mano, e La piccola pace nella Grande Guerra di Michael Jürgs che si propone di riportare alla luce l’evento con testimonianze e aggiungendovi considerazioni di carattere storico, sociale e politico al fine di trovare l’origine e il significato dell’episodio.
La tregua di Natale è stata spesso caratterizzata come l’ultimo sussulto del XIX secolo:[senza fonte] fu l’ultimo momento in cui, in guerra, le due parti si sarebbero incontrate nel mutuo rispetto l’una dell’altra; salutandosi con gentilezza per mostrare che – nonostante il terribile evolversi degli eventi – essi erano ancora soldati onorevoli e rispettosi.
Eventi simili sono rappresentati nel romanzo autobiografico ambientato nella seconda guerra mondialeA Midnight Clear, di William Wharton
Filmografia
Joyeux Noël – Una verità dimenticata dalla storia è un film del 2005 scritto e diretto da Christian Carion. La trama della pellicola è incentrata sulla Tregua di Natale del 1914 fra soldati di trincea tedeschi, francesi e scozzesi.
È stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2005.
Nel 2006 è stato candidato al Premio Oscar e al Golden Globe, in entrambi i casi come miglior film straniero.

lunedì 19 dicembre 2016

RAGGI, FAI QUALCOSA DI GRILLINO: MONETA LOCALE SUBITO


È sotto gli occhi di tutta l’opinione pubblica, in questi giorni, la vicenda che vede coinvolta la sindaca Raggi come sostenitrice del capo del personale capitolino Marra. La via d’uscita è la moneta locale


Di Daniele Pace
Al di là di ogni giudizio politico sulla vicenda Marra, finora la giunta a 5 stelle della capitale non ha ancora lasciato nessun segno tangibile della sua governance. La sindaca Raggi rivendica il suo operato in alcuni settori, come la revisione degli alloggi del comune e qualche risparmio qua e là, in un bilancio gravemente disastrato dalle giunte precedenti, di destra o di sinistra.
Ma per questo sarebbe bastato un semplice contabile, e in realtà dal movimento ci si attendevano ben altri provvedimenti, in particolare dopo le dichiarazioni in campagna elettorale concernenti le monete complementari.
Ci si aspettava, dalla giunta di un movimento che non si presenta come una semplice alternativa politica, ma come un futuro nuovo e realmente innovatore, degli atti di coraggio e cambiamento, se non anche rivoluzionari, rispetto alla stagnante politica della casta, sempre pronta a difendere gli interessi finanziari, cambiando tutto per non cambiare niente.
Di quell’atto di coraggio, quella grande innovazione, la rivoluzione monetaria romana, in realtà non si è più sentito parlare, mentre sarebbe servito, non solo a Roma, ma all’Italia tutta, un grande esempio di economia alternativa. Roma poteva essere la prima grande metropoli al mondo, ad avere una moneta locale ufficiale e gestita dal comune, a favore di tutti i cittadini e le aziende. E chi, se non il M5S, poteva essere il promotore migliore di una simile iniziativa, per garantire anche un futuro politico nella capitale al movimento. Sì, perché la scelta politica di una moneta locale, in apparenza azzardata, avrebbe in realtà garantito un futuro alla capitale e alla giunta stessa, grazie a 5 anni di governance, più che sufficienti, alla popolazione, a comprendere il significato e la portata di questa scelta. Perché la moneta locale è una scelta visibile, vincente e soprattutto istruttiva di quelli che sono le reali necessità di cambiamento e riforma necessari alle nazioni. La prima spallata ad un sistema finanziario e bancario obsoleto, medioevale, che di frena le innovazioni e il futuro, in un mondo il cui progresso non viene supportato dalla moneta pubblica, ma piuttosto frenato da quella privata. È come avere un Ferrari e farlo trainare da un mulo.
Ma oggi più che mai, la sindaca e la giunta, sono ancora in tempo per rivoluzionare l’Italia con l’esempio di una moneta locale romana gestita dal comune. Oggi, nel momento più basso della giunta a 5 stelle, non serve un contabile che gestisca il bilancio capitolino (certamente importante e da tenere in ordine), ma un gesto innovativo e coraggioso, un segno dell’impronta del movimento sulla politica italiana. Un’iniziativa nemmeno azzardata, visto che le monete locali complementari sono già, da decenni, sperimentate, strutturate e perfettamente funzionanti. Non c’è nemmeno da inventare qualcosa di nuovo, a parte il nome, visto che in questo campo ormai è stato tutto già progettato ed applicato. L’innovazione tecnologica ha portato le monete complementari locali a poter essere utilizzate anche attraverso le app sui telefonini. Le aziende sono pienamente coinvolte e possono utilizzare le camere di compensazione per ottenere molti vantaggi economici da riversare poi localmente.
Da un punto di vista burocratico, contabile e fiscale, è già tutto pronto. Basta guardare l’intervista a Paolo Tintori, portavoce e presidente di Rete di Mutuo credito, per comprendere come, da un punto di vista legale, non vi sia alcun ostacolo al coinvolgimento di comuni, aziende e cittadini, in una moneta complementare che possa dare maggior respiro all’economia locale, e una forte scossa ideologica alla nazione. E trattandosi di Roma, una delle maggiori capitali europee, l’esempio sarebbe osservato anche a livello internazionale.
Sappiamo già come contabilizzare e registrare fiscalmente le monete locali, sia per le aziende che per i comuni. Rete di Mutuo credito ha già più volte incontrato Guardia di FinanzaAgenzia delle Entrate e Camere di Commercio, delineando il funzionamento delle monete e ottenendo tutti pareri favorevoli. Se vi fosse ancora qualche dubbio, basti pensare all’ingresso delle banche, che sinceramente deploro, nella piattaforma Sardex. Ingresso da condannare, ma che dimostra però, qualora ve ne fosse ancora bisogno, l’assoluta legalità e fattibilità di una moneta locale su grande scala.
Roma potrebbe essere l’apripista per una moneta complementare nazionale, e anche un rilancio per una giunta uscita moralmente con le ossa rotte dalla vicenda Marra. Roma potrebbe rifare la storia d’Italia, se volesse. La sindaca Raggi si guardi bene l’intervista a Paolo Tintori qui sotto, chiami lui e il suo staff a lavorare per il Comune. Tutto è pronto per l’appuntamento con la storia, manca solo la volontà politica, quella volontà politica che ci si attende dal M5S per andare a questo appuntamento.
Daniele Pace, autore de La Moneta dell’Utopia