venerdì 30 dicembre 2016

Il mito 1975-81: TdS e Bankitalia, non fu "finto debito"


La Banca Centrale era obbligata ad acquistare i titoli italiani sul mercato primario, ma chiaramente ha rivenduto tutto sul mercato secondario, e lo Stato ha pagato il suo debito agli investitori. Smentito il mito che vuole Bankitalia detenere i titoli italiani senza rimborso, creando in questo modo un “finto debito”

Di Daniele Pace

In questi anni di crisi, molti economisti contro l'euro, e tanti cittadini in cerca di verità, hanno a lungo parlato del divorzio tra il Tesoro e Banca d'Italia, e in particolare dell'obbligo, da parte della banca centrale italiana, di acquistare i titoli sul mercato primario, finanziando gratuitamente così il debito pubblico dello stato. Un mito che non regge alle meccaniche di mercato e monetarie, e agli stessi dati economici forniti dagli organi ufficiali.

La storia dei titoli di stato acquistati da Bankitalia


La storia è piuttosto nota solo per una parte, quella cara ai cosiddetti sovranisti anti-euro, ma ha anche una seconda parte, che smentisce la “ricetta” del “finto debito” per risolvere la crisi del debito sovrano.
Con la riforma del mercato dei BOT del 1975, Tesoro e Banca d'Italia siglarono un accordo in cui la Banca Centrale si impegnava ad acquistare i titoli invenduti alle aste pubbliche, sul mercato primario. Fin qui la cronaca è assolutamente corrispondente alla realtà, ma la mitologia vuole che la banca si tenesse i titoli “in pancia”, senza pretenderne il rimborso e tanto meno gli interessi, creando così un “finto debito” per lo Stato, che si sarebbe finanziato gratuitamente attraverso la propria banca centrale. Ma la realtà dei fatti è che Banca d'Italia non tenne mai i Titoli di Stato “in pancia”, ma li rivendette tutti, e subito, sul mercato secondario ad altri investitori, che chiaramente furono rimborsati dallo Stato alla scadenza, oppure li rimisero sul mercato a loro volta, a seconda delle loro esigenze. Chiaramente, alla scadenza, i titoli dovevano essere rimborsati, e non ci fu nessun “finto debito” non rimborsato alla Banca d'Italia da parte della Repubblica italiana.
Questo risulta chiaramente dai dati forniti dalla Banca Centrale (e dalle logiche dei mercati e regolamenti), e in particolare dal paper intitolato “Monetary policy and fiscal dominance in Italy from the early 1970s to the adoption of the euro”, a cura di Eugenio Gaiotti ed Alessandro Secchi per conto della stessa banca.
Un altro paper che aiuta a far luce su quel periodo, è quello di Franco Passacantando, “La creazione di un assetto istituzionale per la stabilità monetaria: il caso italiano”, in cui l'ex Managing Director del International Institutions & Fora e OECD per Banca d'Italia, avanza anche altre motivazioni alle scelte della banca centrale italiana.

Il paper di Secchi e Gaiotti è abbastanza chiaro sull'argomento, a pagina 13, quando inizia a sviluppare le circostanze che portarono a quel periodo concluso con il divorzio:
“Since 1969, it was decided that the Bank was empowered (not obliged) to subscribe the unsold amounts of securities on the primary market and resell them on the secondary market." [Salvemini, 1989] (Dal 1969, fu deciso che la banca fosse incaricata (non obbligata) di sottoscrivere i titoli invenduti sul mercato primario, per rivenderli sul mercato secondario)

Nelle pagine successive (pag 14 e 15), i due autori precisano anche il periodo a partire dal 1975:
“In 1975, a comprehensive reform of the placement system for Treasury bills was introduced, [...] The reform included a provision whereby the Bank of Italy, which previously had no obligation to intervene on the primary market, would act as a residual buyer at auctions of government securities. […] The control of the monetary base required the Bank’s continuous presence in the form of outright interventions on the secondary market for government securities, with a view to placing on the market the securities that were acquired at auctions. Outright operations in Treasury securities, which were almost non-existent in the 1950s and 1960s, therefore acquired prominence as the main tool of monetary policy to control the monetary base.” (Nel 1975, fu introdotta una riforma esauriente del sistema di collocazione dei titoli del Tesoro […] La riforma includeva la condizione, secondo la quale, la Banca d'Italia, che prima non aveva obblighi di intervenire sul mercato primario, sarebbe stata l'acquirente residuale alle aste dei titoli pubblici. […] Il controllo della base monetaria richiese la continua presenza della banca nella forma di interventi completi ed immediati sul mercato secondario dei titoli governativi, con lo scopo di piazzare sul mercato, i titoli che aveva acquistato alle aste. Le operazioni complete in titoli del Tesoro, che erano quasi inesistenti negli anni 50 e 60, acquisirono il rilievo di principale mezzo di politica monetaria nel controllo della base monetaria)

Infine a pagina 25:
“the Bank of Italy intervened heavily with sales on the secondary market and with refinancing operations (both included in the “policy” channel) to counter the excessive growth in liquidity, fully or partially offsetting monetary base creation by the Treasury. After 1975 outright secondary market operations were used to regulate the monetary base and sterilise the effects of the Treasury channel and were therefore primarily aimed at destroying liquidity.”
(la Banca d'Italia intervenne massicciamente con vendite sul mercato secondario e operazioni di rifinanziamento per rispondere all'eccessiva crescita di liquidità, compensando totalmente o parzialmente la creazione di base monetaria del Tesoro [attraverso il finanziamento del debito, NdA]. Dopo il 1975, operazioni di mercato secondario furono usate per regolare la base monetaria e sterilizzare gli effetti del canale del Tesoro, ed erano per tanto mirate principalmente alla distruzione di liquidità)

Come è chiaro ed evidente, Banca d'Italia acquistava i titoli dal Tesoro, ma li piazzava, immediatamente e completamente (outright), sul mercato secondario, indicando anche le motivazioni che erano alla base anche del dibattito politico-economico di quegli anni. I dati forniti da Banca d'Italia e riassunti nel grafico di pagina 27, mostrano come la banca abbia sempre piazzato subito, e interamente, sul mercato secondario, tutti i titoli acquistati dal Tesoro.





Anche Passacantando, nel suo paper a pagina 40, evidenzia come “Sebbene la Banca si fosse impegnata ad acquistare tutti i titoli invenduti, essa poteva poi rivenderli sul mercato: il grafico 2 mostra una correlazione negativa quasi perfetta tra sottoscrizioni nette della Banca d'Italia e acquisti netti di mercato aperto. […] In periodi di tassi d'interesse in forte crescita la Banca d'Italia subiva perdite di bilancio dovute alla vendita di titoli a prezzi inferiori a quelli di acquisto. Intervenendo sul mercato secondario, le autorità monetarie potevano, in circostanze normali, raggiungere l'obbiettivo di creazione di moneta desiderata [...]”





I motivi della rivendita dei titoli sul mercato secondario


I motivi del collocamento sul mercato secondario dei titoli del Tesoro, acquistati alle aste dalla Banca d'Italia, sono chiari scorrendo i due paper, e possono essere evidenziati anche nelle poche parole riportate sopra.

In primo luogo, la Banca d'Italia prefiggeva come obbiettivo della sua politica monetaria, il controllo dell'inflazione, seguendo la logica bancaria secondo la quale l'inflazione è determinata da un'eccessiva liquidità nel sistema. Per questo, come evidenziano Secchi e Gaiotti a pagina 25 (Dopo il 1975, operazioni di mercato secondario furono usate per regolare la base monetaria e sterilizzare gli effetti del canale del Tesoro, e erano per tanto mirate principalmente alla distruzione di liquidità), la Banca d'Italia, vendendo i titoli sul mercato secondario, poteva ritirare liquidità in circolazione e così sterilizzare gli effetti derivati dall'acquisto dei titoli del Tesoro con nuova moneta, e al contempo avere liquidità per i nuovi acquisti. Questo appare chiaro anche in Passacantando: “Intervenendo sul mercato secondario, le autorità monetarie potevano, in circostanze normali, raggiungere l'obbiettivo di creazione di moneta desiderata”. Chi ha letto il mio libro “Il complotto del fruttivendolo”, sa che non do molto credito alla Teoria Quantitativa della Moneta, ma in questo articolo riporterò solo le motivazioni addotte da Bankitalia, nel dibattito politico-economico dell'epoca, per il divorzio dal Tesoro, e in particolare per la questione della collocazione dei titoli sul mercato secondario, focus di questo scritto, per dimostrare come non vi fu un “finto debito” nel finanziamento allo Stato tra il 1975 e il 1981 (anche se gli acquisti proseguirono per qualche altro anno).

In secondo luogo, leggendo Passacantando, si evidenzia come vi fossero degli squilibri di bilancio per Banca d'Italia, in quanto, in un periodo di bassa richiesta di titoli, come dimostrato nel suo grafico n.2, via Nazionale fosse costretta a delle perdite per il collocamento sul mercato secondario a prezzi inferiori di quelli di acquisto fino al 1981. Per questo motivo, non solo la Banca d'Italia doveva collocare i titoli sul mercato secondario, ma nel caso non fosse riuscita a rivendere quelli in eccesso detenuti nel suo portafoglio (ad eccezione di quelli detenuti per politiche monetarie), sarebbe dovuta essere rimborsata dal Tesoro alla scadenza, interessi compresi. Neanche le banche centrali possono permettersi degli squilibri di bilancio, e non a caso, anche i QE, avvengono sempre a fronte di acquisti di obbligazioni.

Conclusioni


Lo scopo di questo articolo non è quello di parteggiare per una o l'altra parte, ma solo ristabilire la verità su quello che successe in quegli anni per quel che riguarda “il finto debito”, non pagato, che lo Stato avrebbe contratto con la Banca d'Italia. In realtà non vi fu nessun finto debito, ma solo un'inversione di quelli che erano i meccanismi di collocamento dei Titoli di Stato. Se prima del 1969 (in via volontaria) e del 1975 (in via obbligatoria), la Banca Centrale non era ammessa alle aste sul mercato primario (e agiva solo su quello secondario), successivamente, fino al 1981, e anche oltre (in via di nuovo volontaria), la banca fu obbligata a finanziare il debito dello Stato, ma essa rivendeva subito tutti i titoli sul mercato secondario, per motivi di bilancio e politica di controllo dell'inflazione. Il debito era assolutamente reale, in quanto agli investitori del mercato secondario non si poteva certamente negare il rimborso dei titoli (e nemmeno a Banca d'Italia), pena il default. Lo Stato trovò semplicemente una scorciatoia per collocare immediatamente tutti i titoli (a Banca d'Italia) ad un tasso da lui scelto, “scaricando” sulla banca l'onere del collocamento agli investitori secondari a prezzi inferiori per la stessa banca. In questo modo lo Stato aumentava comunque il proprio debito pubblico, pur non curandosene all'epoca, forse seguendo la frase attribuita a Ronald Regan (Il debito pubblico è abbastanza grande da poter badare a se stesso).
Chi mi legge, sa che se i Titoli, ma anche l'intero settore bancario, fossero aboliti, stapperei subito la più costosa bottiglia di Champagne in commercio, e quindi questo articolo non vuole deludere o esaltare nessuno, ma solo sfatare quel mito del “finto debito”, un accadimento mai successo, e che nemmeno potrà succedere, per gli stessi motivi per cui la banca collocò i titoli sul mercato secondario. Anche se non si fosse d'accordo su questi motivi, un cambiamento nell'ideologia dominante in economia al riguardo dell'inflazione e delle meccaniche dei Titoli di Stato, potrebbe cambiare gli eventi.
Dunque la Banca d'Italia non si comportò come mera tipografia di Stato, ma esattamente come qualsiasi altra banca dealer incaricata ed autorizzata ad operare sul mercato primario, con un conseguente aumento del debito pubblico. La Banca d'Italia, anche se si tornasse alla Lira, mai potrebbe comportarsi come tipografia, senza un cambiamento strutturale e legislativo dell'intero sistema monetario, ma a quel punto, tanto varrebbe che fosse abolita e che lo Stato iniziasse (e non tornasse, in quanto non lo ha mai fatto) a stampare/creare elettronicamente la valuta nazionale senza emettere titoli. Una vera rivoluzione monetaria, che abolisca totalmente l'attuale sistema.

domenica 25 dicembre 2016

La tregua di Natale 1914: Quando l’uomo dice no alla guerra… Buon Natale a tutti


di David G. Stratman
Il giorno di Natale del 1914, nel primo anno della prima guerra mondiale, i soldati tedeschi, inglesi e francesi disobbedirono ai loro superiori e fraternizzarono con “il nemico” lungo due terzi del fronte occidentale. Le truppe tedesche innalzarono alberi di Natale fuori delle trincee con le scritte “Buon Natale.” “Voi non sparate, noi non spariamo.” A migliaia, le truppe attraversarono la terra di nessuno su cui giacevano sparsi corpi in decomposizione. Cantarono i canti di Natale, si scambiarono le foto dei cari rimasti a casa, condivisero le razioni, giocarono a calcio, arrostirono persino alcuni maiali. I soldati abbracciarono gli uomini che solo poche ore innanzi cercavano di uccidere. Si misero d’accordo per avvertirsi se i superiori li avessero obbligati a imbracciare le loro armi e di mirare in alto.
Agli alti comandi, di entrambe le parti, vennero i brividi. Stava succedendo il disastro: soldati che dichiarano la loro fratellanza e che rifiutano di combattere. I generali, da tutte e due le parti, dichiararono questo pacificarsi spontaneo come tradimento e pertanto conforme alla corte marziale. Entro marzo 1915 il movimento di fraternizzazione era stato sradicato e la macchina di morte rimessa completamente all’opera. Al momento dell’armistizio nel 1918, quindici milioni di persone erano state massacrate.
Poche persone sanno la storia della tregua di Natale. I capi militari non hanno infranto le loro regole per renderla pubblica. Il giorno di Natale del 1988, una cronaca nel Boston Globe accennava che una radio FM locale aveva mandato in onda “Natale nelle trincee,” (Christmas in the trenches) una ballata sulla tregua di Natale, parecchie volte e c’era stato un effetto stupefacente. A Boston, la canzone era diventata il pezzo più richiesto durante le feste su parecchie stazioni FM. “Ancor più stupefacente del numero di richieste avute è la reazione seguente alla ballata degli ascoltatori che non l’avevano mai sentita prima,” ha detto il conduttore. “Mi telefonavano profondamente commossi, a volte in lacrime, chiedendo, ‘Cosa diavolo ho appena ascoltato?’”
Penso di sapere perché gli ascoltatori si erano commossi. La storia della tregua di Natale va contro la maggior parte delle cose che ci hanno insegnato circa la gente. Ci fa dare un’occhiata di un mondo come vorremmo che fosse e dice, “Questo, una volta, è veramente accaduto.” Ci ricorda di quei pensieri che manteniamo celati, fuori della portata della TV e degli articoli di giornale che ci dicono come la vita umana sia insignificante e meschina. È come sentire che i nostri desideri più profondi in verità sono giusti: realmente il mondo potrebbe essere differente.
Estratto da “We CAN Change the World: The Real Meaning of Everyday Life” di  David G. Stratman (New Democracy Books, 1991).
Tradotto per www.disinformazione.it da Stefano Pravato
La tregua di Natale…da Wikipedia
La cosiddetta tregua di Natale ebbe inizio la vigilia di Natale del 1914, durante la prima guerra mondiale, quando i soldati tedeschi iniziarono a decorare la zona attorno alle loro trincee, nella regione di Ypres (Belgio), per il Natale. Cominciarono mettendo delle candele sugli alberi, quindi continuarono le celebrazioni cantando canzoni natalizie. I soldati britannici nelle trincee sull’altro lato del fronte risposero intonando canzoni natalizie in inglese.
I due schieramenti continuarono scambiandosi a voce degli auguri natalizi. Subito dopo ci furono inviti a incontrarsi nella “terra di nessuno”, dove avvenne lo scambio di piccoli doni: whisky, sigari, cioccolata e simili. L’artiglieria nella regione restò muta quella notte. La tregua permise inoltre il recupero delle salme dei soldati caduti. Si svolsero delle vere e proprie cerimonie di sepoltura, nelle quali soldati di entrambe le parti piansero assieme i compagni morti. In un funerale nella “terra di nessuno”, soldati tedeschi e britannici si riunirono assieme per leggere un passo del Salmo 23:
« Il Signore è il mio pastore, non mi fa mancare nulla. Su prati verdi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Il Signore mi dona nuova forza, mi consola, mi rinfranca. Su sentieri diritti mi guida, per amore del suo nome. Anche se andassi per una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me. »
La tregua si estese ad altre zone del fronte, ed esiste anche la storia di un incontro di calcio tra soldati scozzesi e sassoni, che terminò quando la palla andò ad urtare un tratto di filo spinato sgonfiandosi.
In molti settori la tregua durò per tutto il giorno di Natale, ma in alcune zone continuò fino a Capodanno. Alla tregua presero parte sia i soldati che i loro sottufficiali e ufficiali.Va notato che allo scoppio del conflitto la propaganda si adoperò molto per dipingere il nemico come privo di scrupoli o di morale, ed assicurava inoltre che la guerra sarebbe finita prima di Natale.[senza fonte] Durante la tregua i soldati scoprirono che nelle trincee nemiche si trovavano uomini esattamente come loro, e che anzi avevano molto più in comune con questi soldati, rintanati in trincee umide e pericolanti come le loro, che non con i loro più alti superiori.
I comandanti britannici John French e Horace Smith-Dorrien diedero ordine che una tale tregua non si ripetesse mai più. In tutti gli anni di guerra che seguirono, vennero ordinati bombardamenti di artiglieria alla vigilia di Natale per assicurarsi che non si verificassero più interruzioni nei combattimenti. Inoltre le truppe vennero fatte ruotare in diversi settori del fronte per impedire che familiarizzassero apertamente con il nemico. Nonostante queste misure ci furono ancora pochi incontri amichevoli tra i soldati dei due schieramenti, ma su una scala molto minore rispetto a quanto avvenne nel 1914.
Croce, posta vicino Ypres nel 1999 da parte dei “Khaki Chum”, a ricordare il luogo in cui avvenne la tregua di Natale
Le reazioni da parte dei comandi generali di entrambi gli schieramenti furono molto dure e portarono a condanne a morte di molti soldati, accusati di alto tradimento. Durante la Pasqua del 1916 una tregua simile si verificò sul fronte orientale.
Nel 1999, i cosiddetti “Khaki Chums” (ufficialmente: l’Associazione per il Ricordo Militare) visitarono una parte delle Fiandre e ricrearono la tregua di Natale, vivendo come vissero i soldati britannici della prima guerra mondiale, privi delle comodità moderne.
Diversi libri sono stati scritti sulla tregua di Natale, tra cui Silent Night: The Story of the World War I Christmas Truce, di Stanley Weintraub, che riporta la cronaca degli eventi da testimonianze di prima mano, e La piccola pace nella Grande Guerra di Michael Jürgs che si propone di riportare alla luce l’evento con testimonianze e aggiungendovi considerazioni di carattere storico, sociale e politico al fine di trovare l’origine e il significato dell’episodio.
La tregua di Natale è stata spesso caratterizzata come l’ultimo sussulto del XIX secolo:[senza fonte] fu l’ultimo momento in cui, in guerra, le due parti si sarebbero incontrate nel mutuo rispetto l’una dell’altra; salutandosi con gentilezza per mostrare che – nonostante il terribile evolversi degli eventi – essi erano ancora soldati onorevoli e rispettosi.
Eventi simili sono rappresentati nel romanzo autobiografico ambientato nella seconda guerra mondialeA Midnight Clear, di William Wharton
Filmografia
Joyeux Noël – Una verità dimenticata dalla storia è un film del 2005 scritto e diretto da Christian Carion. La trama della pellicola è incentrata sulla Tregua di Natale del 1914 fra soldati di trincea tedeschi, francesi e scozzesi.
È stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2005.
Nel 2006 è stato candidato al Premio Oscar e al Golden Globe, in entrambi i casi come miglior film straniero.

lunedì 19 dicembre 2016

RAGGI, FAI QUALCOSA DI GRILLINO: MONETA LOCALE SUBITO


È sotto gli occhi di tutta l’opinione pubblica, in questi giorni, la vicenda che vede coinvolta la sindaca Raggi come sostenitrice del capo del personale capitolino Marra. La via d’uscita è la moneta locale


Di Daniele Pace
Al di là di ogni giudizio politico sulla vicenda Marra, finora la giunta a 5 stelle della capitale non ha ancora lasciato nessun segno tangibile della sua governance. La sindaca Raggi rivendica il suo operato in alcuni settori, come la revisione degli alloggi del comune e qualche risparmio qua e là, in un bilancio gravemente disastrato dalle giunte precedenti, di destra o di sinistra.
Ma per questo sarebbe bastato un semplice contabile, e in realtà dal movimento ci si attendevano ben altri provvedimenti, in particolare dopo le dichiarazioni in campagna elettorale concernenti le monete complementari.
Ci si aspettava, dalla giunta di un movimento che non si presenta come una semplice alternativa politica, ma come un futuro nuovo e realmente innovatore, degli atti di coraggio e cambiamento, se non anche rivoluzionari, rispetto alla stagnante politica della casta, sempre pronta a difendere gli interessi finanziari, cambiando tutto per non cambiare niente.
Di quell’atto di coraggio, quella grande innovazione, la rivoluzione monetaria romana, in realtà non si è più sentito parlare, mentre sarebbe servito, non solo a Roma, ma all’Italia tutta, un grande esempio di economia alternativa. Roma poteva essere la prima grande metropoli al mondo, ad avere una moneta locale ufficiale e gestita dal comune, a favore di tutti i cittadini e le aziende. E chi, se non il M5S, poteva essere il promotore migliore di una simile iniziativa, per garantire anche un futuro politico nella capitale al movimento. Sì, perché la scelta politica di una moneta locale, in apparenza azzardata, avrebbe in realtà garantito un futuro alla capitale e alla giunta stessa, grazie a 5 anni di governance, più che sufficienti, alla popolazione, a comprendere il significato e la portata di questa scelta. Perché la moneta locale è una scelta visibile, vincente e soprattutto istruttiva di quelli che sono le reali necessità di cambiamento e riforma necessari alle nazioni. La prima spallata ad un sistema finanziario e bancario obsoleto, medioevale, che di frena le innovazioni e il futuro, in un mondo il cui progresso non viene supportato dalla moneta pubblica, ma piuttosto frenato da quella privata. È come avere un Ferrari e farlo trainare da un mulo.
Ma oggi più che mai, la sindaca e la giunta, sono ancora in tempo per rivoluzionare l’Italia con l’esempio di una moneta locale romana gestita dal comune. Oggi, nel momento più basso della giunta a 5 stelle, non serve un contabile che gestisca il bilancio capitolino (certamente importante e da tenere in ordine), ma un gesto innovativo e coraggioso, un segno dell’impronta del movimento sulla politica italiana. Un’iniziativa nemmeno azzardata, visto che le monete locali complementari sono già, da decenni, sperimentate, strutturate e perfettamente funzionanti. Non c’è nemmeno da inventare qualcosa di nuovo, a parte il nome, visto che in questo campo ormai è stato tutto già progettato ed applicato. L’innovazione tecnologica ha portato le monete complementari locali a poter essere utilizzate anche attraverso le app sui telefonini. Le aziende sono pienamente coinvolte e possono utilizzare le camere di compensazione per ottenere molti vantaggi economici da riversare poi localmente.
Da un punto di vista burocratico, contabile e fiscale, è già tutto pronto. Basta guardare l’intervista a Paolo Tintori, portavoce e presidente di Rete di Mutuo credito, per comprendere come, da un punto di vista legale, non vi sia alcun ostacolo al coinvolgimento di comuni, aziende e cittadini, in una moneta complementare che possa dare maggior respiro all’economia locale, e una forte scossa ideologica alla nazione. E trattandosi di Roma, una delle maggiori capitali europee, l’esempio sarebbe osservato anche a livello internazionale.
Sappiamo già come contabilizzare e registrare fiscalmente le monete locali, sia per le aziende che per i comuni. Rete di Mutuo credito ha già più volte incontrato Guardia di FinanzaAgenzia delle Entrate e Camere di Commercio, delineando il funzionamento delle monete e ottenendo tutti pareri favorevoli. Se vi fosse ancora qualche dubbio, basti pensare all’ingresso delle banche, che sinceramente deploro, nella piattaforma Sardex. Ingresso da condannare, ma che dimostra però, qualora ve ne fosse ancora bisogno, l’assoluta legalità e fattibilità di una moneta locale su grande scala.
Roma potrebbe essere l’apripista per una moneta complementare nazionale, e anche un rilancio per una giunta uscita moralmente con le ossa rotte dalla vicenda Marra. Roma potrebbe rifare la storia d’Italia, se volesse. La sindaca Raggi si guardi bene l’intervista a Paolo Tintori qui sotto, chiami lui e il suo staff a lavorare per il Comune. Tutto è pronto per l’appuntamento con la storia, manca solo la volontà politica, quella volontà politica che ci si attende dal M5S per andare a questo appuntamento.
Daniele Pace, autore de La Moneta dell’Utopia

giovedì 6 ottobre 2016

Sull’invenzione del denaro – Sesso, avventura, sociopatia monomaniacale e la vera funzione dell’Economia


Su Naked Capitalism, un bellissimo articolo dell’antropologo David Graeber, nato in risposta ad una controversia con l’economista di scuola austriaca Robert Murphy, rivela la totale infondatezza del Mito del Baratto, secondo il quale la moneta sarebbe nata dal baratto delle società primitive. Perché, si chiede Graeber, se tutte le prove dicono il contrario, gli economisti continuano ferocemente a sostenere questo mito? Perché senza di esso crollerebbe la visione razionalista e monodimensionale dell’Homo Oeconomicus, svelando la natura prescrittiva dell’economia (liberale): più che una scienza, una disciplina che pretende di dire agli uomini come dovrebbero comportarsi, una religione le cui teorie devono essere difese dai propri adepti a prescindere da qualsiasi realtà empirica.
di David Graeber, 11 settembre 2011
Traduzione di Carmenthesister, Saint Simon e Rododak
Pubblico qui questa versione più dettagliata della mia risposta, non solo per fugare ogni dubbio, ma perché l’intera questione delle origini della moneta solleva altre interessanti domande – non ultima, perché gli economisti contemporanei si scaldino tanto in proposito.  Per cominciare, fornisco dei ragguagli sullo stato attuale del dibattito scientifico in merito, spiego la mia posizione, e mostro come un vero dibattito avrebbe potuto svolgersi.
Innanzitutto, la storia:
1) Adam Smith per primo sostenne ne “La ricchezza delle nazioni” che, non appena nella società umana è apparsa la divisione del lavoro, con la specializzazione di alcuni ad esempio nella caccia, di altri nelle punte di freccia, la gente avrebbe cominciato a scambiarsi le merci gli uni con gli altri (sei punte di freccia per una pelle di castoro, per esempio). Questa abitudine, però, avrebbe logicamente portato a un problema che gli economisti hanno denominato come il problema della ‘doppia coincidenza dei bisogni “- perché lo scambio sia possibile, entrambe le parti devono avere qualcosa che l’altro è disposto ad accettare in cambio. Questo fa presumere  che alla fine la gente abbia cominciato ad accumulare riserve di beni ritenuti generalmente appetibili, e che per questa stessa ragione sarebbero diventati ancora più largamente accettati, e che, alla fine, sarebbero diventati moneta. Il baratto in tal modo ha dato origine alla moneta, e la moneta, infine, al credito.
2) Gli economisti del 19° secolo, come Stanley Jevons e Carl Menger [1] hanno mantenuto la struttura di base del ragionamento di Smith, ma hanno sviluppato modelli ipotetici di come effettivamente la moneta potrebbe aver avuto origine da una situazione del genere. Tutti si sono basati sull’ipotesi che, in tutte le comunità senza moneta, la vita economica non poteva che assumere la forma del baratto. Menger ha anche parlato di membri di tali comunità che “portavano i loro prodotti al mercato” – presumendo l’esistenza di mercati dove una vasta gamma di prodotti erano resi disponibili, ma erano semplicemente scambiati direttamente, in qualunque modo la gente percepisse come vantaggioso.
3) Gradualmente gli antropologi hanno cominciato ad andare in giro per il mondo e hanno iniziato a osservare direttamente come funzionavano di fatto le economie che non utilizzavano la moneta (o comunque, non la utilizzavano per le transazioni di tutti i giorni). Quello che hanno scoperto è stata una varietà di modalità, sconcertante sulle prime, che va dallo scambio competitivo di regali allo stoccaggio comunale in luoghi in cui le relazioni economiche erano incentrate sui vicini che cercavano di indovinare i desideri gli uni degli altri. Ciò che non hanno mai trovato è stato un qualche posto, ovunque nel mondo, in cui le relazioni economiche tra i membri della comunità avessero preso la forma prevista dagli economisti: “Ti darò una ventina di galline per quella vacca” Quindi nello studio antropologico definitivo in materia, Caroline Humphrey, professore di antropologia a Cambridge, conclude: “Nessun tipo di economia di baratto puro e semplice è mai stata descritta, e tanto meno è venuto fuori che da esso abbia avuto origine la moneta; tutta l’etnografia disponibile suggerisce che una cosa del genere non è mai esistita “[2]
  1. Giusto per metterlo in evidenza: gli economisti quindi avevano previsto che tutte le economie (100%) non monetarie dovevano essere economie del baratto. L’osservazione empirica ha rivelato che il numero effettivo di casi osservabili – oltre migliaia di studi – è pari allo 0%.
  2. Allo stesso modo, il numero di mercati documentati in cui le persone si recano regolarmente per scambiare merci direttamente senza alcun riferimento a una moneta di conto è pari a zero. Se vi è una qualsiasi previsione sociologica che sia sempre stata smentita, è proprio questa.
4) Gli economisti hanno per la maggior parte accettato le scoperte antropologiche, se vi si sono trovati direttamente a confronto, ma non hanno cambiato nessuna delle ipotesi che avevano dato origine alle previsioni dimostratesi false. Nel frattempo, tutti i libri di testo continuano a riportare la solita vecchia sequenza: prima c’era il baratto, poi la moneta, quindi il credito – solo che invece di dire che nella realtà le società tribali praticavano regolarmente il baratto, lo mettono giù come un esercizio di fantasia ( “Immaginate cosa dovreste fare se non aveste la moneta! “, o sottintendono in modo alquanto vago che quel che le società tribali devono aver fatto in realtà è stato un baratto di qualche tipo).
Quindi quello che ho detto non era in alcun modo discutibile. Quando mi confronto sul perché gli economisti continuano a raccontare la stessa storia, la solita risposta è: “Be’, non è che ci fornite un’altra storia!” In un certo senso, è un argomento. Il problema è che non c’è alcuna ragione per cui ci dovrebbe essere un’unica storia per l’origine della moneta. Proverò qui a spiegare quella che è la mia argomentazione:
1) Se la moneta è semplicemente un sistema matematico attraverso il quale si possono confrontare valori proporzionali, per dire che 1 di questi vale 17 di quelli, che possano assumere o meno la forma di un intermediario negli scambi, allora qualcosa in questa direzione deve essere apparso in innumerevoli circostanze diverse nella storia umana per diversi motivi. Presumibilmente la moneta come la conosciamo oggi è nata da un lungo processo di convergenza.
2) Tuttavia, ci sono tutte le ragioni per credere che il baratto, e il relativo problema della ‘doppia coincidenza dei bisogni’, non è stato una delle circostanze che all’inizio hanno dato origine alla moneta.
  1. Il grande difetto del modello economico è che esso è basato sull’ipotesi di operazioni a pronti. Io ho punte di freccia, tu hai pelli di castoro, se non hai bisogno di punte di freccia in questo momento, nessun accordo. Ma anche presumendo che i vicini in una piccola comunità si scambino oggetti in qualche modo, perché mai dovrebbero limitarsi alle transazioni a pronti? Se il tuo vicino non ha bisogno delle tue punte di freccia in questo momento, probabilmente a un certo punto in futuro ne avrà bisogno, e anche in caso contrario, tu sei il suo vicino – avrai indubbiamente qualcosa che lui vuole, o potrai anche fargli un piccolo favore, alla fine. Ma abbandonando l’ipotesi del commercio sul posto, non c’è nessun problema di doppia coincidenza dei bisogni, e, quindi, nessun bisogno di inventare la moneta.
  2. Ciò che gli antropologi hanno infatti osservato là dove non viene utilizzata la moneta non è un sistema esplicito di crediti e debiti, ma un sistema molto ampio di crediti e debiti non contabilizzati. Nella maggior parte di queste società, se un vicino di casa vuole qualcosa che tu possiedi, di solito basta semplicemente che cominci a vantarlo ( “Che magnifico maiale!”); la risposta è una consegna immediata, accompagnata da molta insistenza sul fatto che questo è un dono e che il donatore di certo non vorrebbe mai nulla in cambio. Nei fatti, il destinatario ora gli deve un favore. Ora, egli potrebbe anche solo tenersi il favore, dal momento che è bello che altri siano in debito con voi, o potrebbe richiedere qualcosa di tipo immateriale ( “Sai, mio figlio è innamorato di tua figlia …”). Potrebbe chiedere un altro maiale, o qualcosa che considera più o meno equivalente in natura. Ma è quasi impossibile vedere come tutto questo potrebbe portare ad un sistema in cui è possibile misurare i valori proporzionali.
Dopo tutto, anche se, come a volte accade, la parte in debito si presenta con qualche regalo indesiderato, e l’altro lo ritiene inadeguato – un paio di polli, ad esempio –  allora potrebbe trattarlo da spilorcio, ma  è improbabile che senta il bisogno di trovare una formula matematica per misurare quanto sia taccagno. Di conseguenza, come ha osservato Chris Gregory, quello che normalmente si trova in queste ‘economie del dono’ è un’ampia varietà di diversi tipi di beni – le canoe valgono più o meno come le preziose collane di famiglia, entrambe valgono più dei maiali e dei denti di balena, che valgono più dei polli ecc. – ma non c’è nessun sistema per misurare quanti maiali equivalgono a un canoa. [3]
3) Tutto questo non vuol dire che il baratto non si verifica mai. È ampiamente confermato in tempi e luoghi diversi. Ma in genere  si verifica tra estranei, persone che non hanno rapporti di tipo morale tra loro. C’è un motivo per cui, in quasi tutte le lingue europee, i termini “traffico e baratto” originariamente avevano il significato di “fregatura, truffa, o furto.”[4] Ancora non vi è alcuna ragione di credere che questo baratto abbia mai dato origine alla moneta. Questo perché il baratto assume tre forme conosciute:
  1. Il baratto può assumere la forma di interazioni occasionali tra persone che presumibilmente non avranno altra occasione di incontrarsi di nuovo. Questo potrebbe comportare problemi di ‘doppia coincidenza dei bisogni’, ma non porterà alla nascita di un sistema monetario, perché eventi rari e occasionali non possono dare origine a un sistema di qualsiasi tipo.
  2. Se ci sono rapporti commerciali in corso tra stranieri nelle economie senza moneta, è perché ogni parte sa che l’altra ha qualche prodotto specifico che vuole acquisire – quindi non c’è problema di ‘doppia coincidenza dei bisogni’. Piuttosto che condurre le persone a creare un qualche tipo di intermediario negli scambi (moneta) per facilitare le transazioni, un commercio del genere porta normalmente alla creazione di un sistema di equivalenti tradizionali relativamente isolati dalla variabilità della domanda e dell’offerta.
  3. A volte, il baratto diventa una modalità diffusa di interazione quando la gente, abituata a usare la moneta nelle transazioni di tutti i giorni, è improvvisamente costretta a farne a meno. Questo può accadere, per esempio, perché l’offerta di moneta si prosciuga (Russia negli anni ’90), o perché le persone in questione non vi hanno accesso (detenuti o residenti nei campi di prigionia.). Ma non può portare alla invenzione della moneta, perché la moneta è già stata inventata. [5]
Quindi questa è la mia argomentazione effettiva, che il prof Murphy avrebbe potuto facilmente verificare dando uno sguardo al relativo capitolo del libro.
Da questo è facile vedere che le sue contro-argomentazioni spaziano tra l’estremamente debole e il per nulla pertinente. Le affronterò una alla volta, così come sono.
  • Murphy sostiene che il fatto che non ci siano casi documentati di economie fondate sul baratto non ha importanza, perché tutto ciò che è davvero necessario è che ci sia stato un qualche periodo della storia, per quanto breve, in cui il baratto era diffuso, perché comparisse il denaro. Questo è praticamente l’argomento più debole a cui si può ricorrere. Ricordiamo che gli economisti originariamente prevedevano che tutte (100%) le economie non monetarie funzionassero attraverso il baratto. La cifra reale di casi osservabili è dello 0%. Gli economisti sostengono di essere scienziati. Normalmente, quando l’ipotesi di uno scienziato produce risultati così spettacolarmente non predittivi, lo scienziato inizia a lavorare su una nuova serie di ipotesi. Dire “Ma puoi dimostrare che questo non è accaduto tantissimo tempo fa, in un periodo che non ci ha lasciato testimonianze?” è un classico argomento specioso. In realtà, non posso provare che non è andata così. Non posso provare neanche che il denaro non è stato introdotto da omini verdi provenienti da Marte in un periodo storico altrettanto sconosciuto. Dato il peso delle prove, va a tutti i Murphy del mondo il compito di dimostrare che c’è un motivo plausibile per cui tutti i casi osservabili di società senza denaro non funzionano affatto nel modo previsto da Menger, e quindi, spiegarci per quale motivo dovremmo credere che in chissà quale era sconosciuta le cose siano andate diversamente; ma questo, Murphy non prova nemmeno a farlo.
  • Murphy passa poi a produrre un argomento fantoccio, affermando che un sistema in cui si prendono in prestito le cose gli uni dagli altri e poi ci si rivolge alle autorità politiche perché creino le regole del sistema non produrrebbe il denaro. Questo è abbastanza vero, ma non sembra molto pertinente, tenendo conto che a) non ho mai detto che le persone “prendono in prestito” gli uni dagli altri nel modo descritto da lui, b) non ho mai attribuito alcun ruolo alle autorità politiche in questo processo, e c) ben lungi dal dire che il sistema informale di favori che descrivo avrebbe portato alla invenzione del denaro, ho sostenuto esplicitamente il contrario.
  • Quindi Murphy ribadisce la tesi di Menger su come i soldi abbiano potuto apparire dal baratto, un argomento che, dato il peso delle prove finora presentate, sarebbe pertinente solo se ci fosse qualche ragione specifica per ritenere che il denaro non avrebbe potuto fare la sua comparsa in alcun altro modo. Murphy non espone alcun motivo, se non che non riesce a immaginare nessun altro modo in cui il denaro sia entrato in uso.
  • Murphy conclude citando il famoso studio su come l’ampia diffusione del baratto tra i prigionieri nei campi di reclusione sembri aver portato all’uso di sigarette come denaro – un argomento che, se si fosse preso la briga di leggere tutta l’intervista, per non parlare del libro – avrebbe capito essere in realtà una conferma della mia tesi (vedi 3c sopra) e non una confutazione.
Per essere onesti, Murphy ha un altro argomento: egli adotta la posizione, proposta per la prima volta da Karl Marx [!], secondo cui il denaro apparve dal baratto in primo luogo nel commercio internazionale. La prova è la seguente: le prime notizie che abbiamo a proposito dell’uso di denaro sono documenti amministrativi della Mesopotamia, in cui il denaro viene utilizzato quasi esclusivamente per tenere la contabilità all’interno di grandi organizzazioni burocratiche (templi e palazzi); il sistema si basa su un’equivalenza fissa tra orzo e argento: dato che l’argento era una unità commerciale, questo dimostra che i commercianti della Mesopotamia dovevano avere utilizzato l’argento come mezzo di scambio in operazioni a pronti con i loro partner commerciali a lunga distanza, e che in seguito lo stesso sistema era stato adottato come unità di conto nelle transazioni amministrative all’interno dei templi. Questo merita una risposta un po’ più articolata, non perché sia un argomento particolarmente convincente (è fondamentalmente circolare: “Dal momento che il denaro non può che essere sorto attraverso il baratto, se l’argento era usato come denaro, questo deve essere avvenuto attraverso il baratto”), ma perché solleva alcune questioni interessanti su come il denaro in realtà è entrato in uso.
Come ho osservato in precedenza, scambi occasionali e irregolari tra estranei non generano un sistema monetario, in quanto uno scambio occasionale e irregolare non produce alcun tipo di sistema. Nel mondo antico, se si osservano scambi regolari tra estranei, è perché ci sono beni specifici di cui ciascuna delle due parti ha bisogno o che comunque desidera, e ciascuna delle due lo sa. Bisogna infatti tenere a mente che, nei tempi antichi, il commercio a lunga distanza era estremamente pericoloso. Non si attraversano montagne, deserti e oceani, rischiando la morte in una dozzina di modi diversi, per presentarsi con una collezione di beni che forse qualcuno potrebbe desiderare, per vedere se per caso capita che abbiano anche loro qualcosa che ti serve. Ti presenti perché sai che ci sono persone che hanno sempre voluto lana e che hanno sempre avuto lapislazzuli. Come osservato sopra, logicamente, quello a cui una situazione del genere porterebbe è a una serie di equivalenze convenzionali – tanta lana per tanti lapislazzuli -, equivalenze che hanno una buona probabilità di essere mantenute stabili, nonostante le variazioni della domanda e dell’offerta, in quanto tutte le parti devono ridurre i rischi per poter continuare a commerciare. E ancora una volta, quello che un ragionamento logico porta a prevedere è proprio ciò che si riscontra. Anche nei periodi della storia umana in cui il denaro ed i mercati sono già esistenti, i commercianti spesso continuano a condurre i commerci ad alto rischio e a lunga distanza attraverso un sistema di equivalenze convenzionali, o – se si utilizza il denaro – di prezzi amministrati, tra prodotti specifici di cui è nota la disponibilità, o la domanda, in determinate posizioni prestabilite.
Ci si potrebbe naturalmente chiedere se questo sistema non potesse generare qualcosa come una moneta di conto, cioè l’uso di uno o due prodotti relativamente desiderabili per misurare il valore di altri, una volta che all’insieme di merci offerte furono aggiunti più elementi (ad esempio, se il nostro mercante faceva diverse tappe). La risposta è sì. Non c’è dubbio che in determinate circostanze, qualcosa di simile sia accaduto. Naturalmente, questo avrebbe significato che il denaro, in casi simili, è stato all’inizio creato come mezzo per evitare i meccanismi di mercato, e che non è stato utilizzato principalmente come mezzo di scambio, ma, soprattutto in primo luogo come strumento di conto. Si potrebbe anche creare uno scenario immaginario in cui, una volta che si inizia a usare una merce divisibile/trasportabile/etc come mezzo per stabilire equivalenze fisse tra le altre merci, si potrebbe poi iniziare ad usarla per operazioni a pronti minori, anche per misurare prezzi negoziati per scambi commerciali in modo più legato al mercato. Tutto ciò è possibile e probabile che sia accaduto di tanto in tanto, dopo tutto stiamo parlando di migliaia di anni. Probabilmente nel corso di questo lungo periodo sono successe cose di tutti i tipi. Tuttavia, non vi è alcun motivo per ritenere che un sistema simile produrrebbe un mezzo concreto di scambio utilizzato regolarmente nel fare queste operazioni – anzi, visti i pericoli del commercio nel mondo antico, sarebbe del tutto irrazionale insistere sul fatto che strumenti come l’argento fossero  utilizzati in tutte le transazioni, invece di un sistema di credito, dal momento che la necessità di portare in giro denaro materiale trasformerebbe il commerciante in un bersaglio di gran lunga più attraente per potenziali ladri. Una banda di nomadi del deserto non attaccherebbe una carovana che trasporta lapislazzuli, soprattutto se gli unici potenziali acquirenti erano templi che probabilmente conoscevano tutti i commercianti attivi e capivano che avevi rubato la roba (e anche se avessi potuto scambiarli, che cosa te ne faresti di un grande mucchio di lana in ogni caso, se vivi in un deserto?), ma sicuramente assalirebbero qualcuno che porta in giro un equivalente universale. (Questo è presumibilmente il motivo per cui i grandi commercianti a lunga distanza del mondo classico, i Fenici, furono tra gli ultimi ad adottare la moneta – se il denaro fosse stato inventato come mezzo di circolazione per il commercio a lunga distanza, avrebbero dovuto essere i primi.)
L’altro problema è che non vi è alcuna ragione per credere che un simile meccanismo, che sarebbe presumibilmente stato utilizzato solo da quella minuscola parte della popolazione impegnata nel commercio a lunga distanza, e che tendeva a trattare questi argomenti come una conoscenza specialistica da tenere al riparo dagli outsider – possa aver creato un sistema monetario utilizzato nelle transazioni di tutti i giorni all’interno di una società né c’è alcuna prova che ciò sia avvenuto.
La prova reale è che in Mesopotamia – il primo caso di cui sappiamo qualcosa –  questi sistemi per stabilire i prezzi più diffusi nei fatti sono apparsi come effetto collaterale delle burocrazie non statali. Anche in questo caso, le burocrazie non statali sono un fenomeno la cui esistenza nessun modello economico aveva saputo prevedere. Sono fuori dalla mappa della teoria economica. Ma basta guardare alle testimonianze storiche, ed eccole. I templi sumeri (e anche molti dei primi complessi di palazzi che li imitavano) non erano Stati, non riscuotevano le tasse né avevano il monopolio della forza, ma contenevano migliaia di persone che lavoravano nell’agricoltura, nell’industria, nella pesca e nell’allevamento, persone che dovevano essere nutrite e rifornite, le cui entrate e uscite dovevano essere misurate. Tutte le prove esistenti indicano che il denaro sia entrato in uso come una serie di equivalenti fissi tra argento – il materiale utilizzato per misurare gli equivalenti fissi nel commercio a lunga distanza e comodamente immagazzinato nei templi stessi in cui era utilizzato per realizzare le immagini di divinità etc – e grano, il materiale usato per pagare ai lavoratori le razioni più importanti provenienti dalle scorte del tempio. Quindi, come l’economista e collaboratore di Naked capitalism Michael Hudson ha così brillantemente dimostrato [6], un siclo d’argento fu fissato come la quantità di argento equivalente al numero di misure di orzo necessarie per fornire due pasti al giorno a un lavoratore del tempio per un mese. Ovviamente un sistema di misura di questo tipo non sarebbe stato di alcun interesse per un commerciante.
Quindi, anche se una sorta di sistema di equivalenze fisse, misurate in argento, potrebbe essere apparso nel processo del commercio (da notare ancora una volta che non si parla di un reale sistema di moneta d’argento emerso dal baratto), sono state le burocrazie del tempio che in realtà avevano qualche ragione per estendere il sistema da unità utilizzata per confrontare il valore di un numero limitato di oggetti rari scambiati a lunga distanza, usata quasi esclusivamente dai membri della élite politica o amministrativa, a qualcosa che poteva essere utilizzato per confrontare i valori di oggetti di uso quotidiano. Lo sviluppo dei mercati locali all’interno delle città, a sua volta, è nato come un effetto collaterale di questi sistemi, e tutte le prove mostrano che anche in questo caso si operava principalmente attraverso il credito. Per esempio i Sumeri, anche se avevano i mezzi tecnologici per farlo, non hanno mai prodotto bilance abbastanza precise per pesare le piccole quantità di argento che sarebbero state necessarie per comprare un singolo barile di birra, o una tunica di lana, o un martello – l’indicazione più chiara che, anche dopo che il denaro entrò in uso, non fu utilizzato come mezzo di scambio per le transazioni minori, ma piuttosto come un mezzo per tenere traccia di operazioni effettuate a credito.
In molti luoghi e tempi si vedono situazioni simili: due tipi di denaro, una unità commerciale comune per il commercio a lunga distanza da una parte, e un comune mezzo di sussistenza – bestiame, grano – che è accumulato, ma mai scambiato, dall’altra. Eppure, le burocrazie del tempio e i loro simili sono una rarità. In loro assenza, come altro potrebbe sorgere un sistema di prezzi, di equivalenti proporzionali tra i valori di ognuno e di tutti gli oggetti? Anche in questo caso, l’antropologia e la storia sanno fornire una risposta convincente, quella che, ancora una volta, finisce fuori dal radar di quasi tutti gli economisti che hanno mai scritto sull’argomento. E sono i sistemi giuridici.
Se qualcuno ci ricambia in modo insufficiente, ci limitiamo a dargli dello spilorcio. Se lo facciamo quando è ubriaco e lui risponde dandoci un pugno nell’occhio, è molto probabile che chiediamo un giusto risarcimento. E questo è, ancora una volta, esattamente ciò che troviamo. L’antropologia è piena di esempi di società senza mercati o denaro, ma con sistemi elaborati di sanzioni per varie forme di lesioni o offese. Ed è quando qualcuno ha ucciso suo fratello, o gli ha tagliato un dito, che è più probabile che qualcuno si irrigidisca e dichiari “La legge dice 27 giovenche della migliore qualità e se non sono della migliore qualità, questo significa guerra”. È anche la situazione in cui è più probabile che sia la necessità di stabilire valori proporzionali: se il colpevole non ha giovenche, ma vuole sostituirle con piatti d’argento, è molto probabile che la vittima insista perché l’equivalente sia esatto. (C’è una ragione sa la parola “pay” (“pagare”) deriva da una radice che significa “pacificare”.)
Di nuovo, a differenza della versione degli economisti, questa non è un’ipotesi. Questa è una descrizione di ciò che realmente accade – e non solo nelle testimonianze etnografiche, ma anche in quelle storiche. Il numismatico Phillip Grierson molto tempo fa indicò l’esistenza di questi elaborati sistemi di equivalenti monetari nei Codici di Diritto Barbarico dell’Europa dell’alto Medioevo [7]. Ad esempio, i codici irlandesi e gallesi contengono liste estremamente dettagliate di prezzi in cui, nel caso gallese, era stato elaborato nei minimi dettagli il valore esatto di ogni oggetto di uso comune in una casa qualsiasi, dagli utensili della cucina alle assi del pavimento – nonostante il fatto che a quel tempo non sembra esserci stato nessun mercato in cui tali oggetti avrebbero potuto essere acquistati e venduti. Il sistema di prezzi esisteva esclusivamente per il pagamento dei danni e la compensazione – in parte di danni materiali, ma in particolare per gli insulti all’onore delle persone, dal momento che anche il preciso valore della dignità personale di ogni uomo poteva essere quantificato con precisione in termini monetari. Non si può fare a meno di chiedersi come la teoria economica classica spiegherebbe una situazione del genere. Gli antichi gallesi e irlandesi inventarono il denaro attraverso il baratto in qualche punto nel lontano passato, e poi, dopo averlo inventato, tennero il denaro, ma smisero del tutto di comprare e vendere cose tra di loro?
La persistenza del mito del baratto è curiosa. In origine risale fino ad Adam Smith. Altri elementi delle argomentazioni di Smith da allora sono stati abbandonati dai principali economisti – la teoria del valore -lavoro è solo l’esempio più famoso. Perché in questo singolo caso ce ne sono così tanti che cercano disperatamente di mettere insieme tempi e luoghi immaginari dove deve essere successo qualcosa di simile, nonostante le prove schiaccianti che le cose non sono andate a questo modo?
Perché, mi sembra, [il mito] risale precisamente a questo concetto di razionalità che anche Adam Smith abbracciò: che gli esseri umani sono agenti economici razionali e calcolatori che cercano un vantaggio materiale nello scambio, e che quindi è possibile costruire un ambito scientifico che studia tale comportamento. Il problema è che il mondo reale sembra contraddire questa ipotesi in ogni momento. Così troviamo che nei villaggi reali, invece che pensare soltanto a ottenere il maggior guadagno scambiando una bene materiale per un altro con i loro vicini, le persone sono molto più interessate a coloro che amano, che odiano, che vogliono salvare delle difficoltà, o vogliono mettere in imbarazzo e umiliare ecc, per non parlare della necessità di scongiurare le faide.
Anche quando gli sconosciuti si incontravano e ne derivava il baratto, le persone spesso avevano in testa molto più che ottenere il maggior numero possibile di punte di freccia in cambio del minor numero di conchiglie. Permettetemi di finire, quindi, portando un paio di esempi dal libro, di casi documentati, reali, di ‘baratto primitivo’ – uno di quelli occasionali, del tipo più affermato a scambio fisso equivalente.
Il primo esempio viene dalla popolazione amazzonica dei Nambikwara, come descritto in uno dei primi saggi del famoso antropologo francese Claude Lévi-Strauss. Era una società semplice, senza una grande divisione del lavoro, organizzata in piccoli gruppi che tradizionalmente arrivavano ciascuno al massimo a un centinaio di persone. Di tanto in tanto, se una banda avvista i fuochi per cucinare di un’altra banda nelle vicinanze, vengono inviati emissari per negoziare un incontro a scopo di commercio. Se l’offerta viene accettata, per prima cosa nascondono le loro donne e i bambini nel bosco, quindi invitano gli uomini dell’altra banda a visitare campo. Ogni gruppo ha un capo e una volta che tutti sono radunati, ogni capo fa un discorso formale, lodando l’altra parte e sminuendo la propria; ognuno mette da parte le proprie armi per cantare e ballare insieme, anche se la danza imita un confronto militare. Poi, individui di ognuno dei due gruppi si avvicinano a quelli dell’altro per commerciare:
Se un individuo vuole un oggetto lo esalta dicendo quanto è bello. Se un uomo apprezza un oggetto e vuole molto in cambio, invece di dire che è molto prezioso dice che è inutile, mostrando così il suo desiderio di tenerlo. ‘Questa ascia non è buona, è molto vecchia, è molto smussata’, dirà … [8]
Alla fine, ognuno “strappa l’oggetto di mano all’altro”, e se qualcuno lo fa troppo presto, possono derivarne combattimenti.
L’intera faccenda si conclude con una grande festa in cui le donne ricompaiono, ma anche questo può portare a problemi, dal momento che tra la musica e il buon umore, ci sono molte opportunità per le seduzioni (ricordate, questa è gente che normalmente vive in gruppi che contengono, per ogni persona, forse solo una dozzina di membri del sesso opposto e più o meno con la stessa età. La possibilità di incontrare altre persone è piuttosto emozionante). Questo a volte porta a litigi di gelosia. Di tanto in tanto, gli uomini vengono uccisi, e per scongiurare questa deriva verso una guerra vera e propria, la soluzione di solito consisteva nel far adottare all’assassino il nome della vittima, cosa che avrebbe trasmesso all’assassino la responsabilità di prendersi cura di sua moglie e dei figli.
Il secondo esempio sono i Gunwinngu del territorio di West Arnhem in Australia, famosi per intrattenere i vicini in rituali di baratto cerimoniale chiamati dzamalag. Qui la minaccia della violenza concreta sembra molto più distante. La regione è anche unita sia da un complesso sistema di matrimoni che dalla specializzazione locale, dove ogni gruppo produce il proprio bene da commerciare che viene barattato con gli altri gruppi.
Negli anni ‘40, un antropologo, Ronald Berndt, ha descritto un rituale dzamalag, dove un gruppo in possesso di stoffa importata scambiava i propri prodotti con un altro gruppo, noto per la produzione di lance seghettate. Anche qui [il baratto] inizia quando gli stranieri, dopo le trattative iniziali, vengono invitati al campo dei padroni di casa, e gli uomini cominciano a cantare e danzare, in questo caso accompagnati da un didjeridoo. Quindi arrivano le donne dei padroni di casa, scelgono uno degli uomini, gli danno un pezzo di stoffa, quindi iniziano a prenderlo a pugni e tirargli via i suoi abiti, infine lo trascinano nei cespugli circostanti per fare sesso, mentre lui finge riluttanza, dopo di che l’uomo dà un piccolo regalo in perline o tabacco. A poco a poco, tutte le donne selezionano i partner, mentre i loro mariti le sollecitano a farlo, dopo di che le donne dall’altro gruppo cominciano il processo all’inverso, ri-ottenendo molte delle perline e del tabacco ceduti dai loro mariti. L’intera cerimonia culmina quando i maschi del gruppo in visita eseguono una danza coordinata, fingendo di minacciare i loro ospiti con le lance, ma alla fine, invece, consegnano le lance alle donne dei padroni di casa, dichiarando: “Non abbiamo bisogno di traffiggervi, dal momento che l’abbiamo già fatto!” [9]
In altre parole, i Gunwinngu riescono a prendere tutti gli elementi più emozionanti degli incontri dei Nambikwara – la minaccia della violenza, la possibilità di intrighi sessuali – e li trasformano in un gioco divertente (un gioco che, osservano gli etnografi, è considerato un enorme divertimento per tutti quelli coinvolti). In una tale situazione, si dovrebbe supporre che ottenere il rapporto ottimale di stoffe-per-lance è l’ultima cosa nella testa della maggior parte dei partecipanti (e comunque, sembrano operare su equivalenze fisse tradizionali).
Gli economisti ci chiedono sempre di ‘immaginare’ come le cose devono aver funzionato prima dell’avvento del denaro. Quello che simili esempi rendono chiaro più di ogni altra cosa è quanto limitata sia in realtà la loro immaginazione. Quando si ha a che fare con un mondo poco familiare a denaro e mercati, anche in quelle rare occasioni in cui gli stranieri si incontrano esplicitamente per scambiare merci, raramente pensano esclusivamente al valore della merce. Questo non solo dimostra che l’Homo Oeconomicus che sta alla base di tutti i teoremi e le equazioni che pretendono di rendere l’economia una scienza è una persona quasi impossibilmente noiosa – fondamentalmente, un sociopatico monomaniacale che può aggirarsi per un’orgia pensando solo ai tassi marginali di rendimento – ma che quello che gli economisti in pratica stanno facendo, con il racconto del mito del baratto, è prendere un tipo di comportamento che è davvero possibile solo dopo l’invenzione della moneta e dei mercati e quindi proiettarlo all’indietro come la ragione presunta per l’invenzione del denaro e dei mercati stessi. Logicamente, questo ha tanto senso quanto dire che il gioco degli scacchi è stato inventato per permettere alle persone di soddisfare un desiderio preesistente di dare scacco matto al re dell’avversario.
* * *
A questo punto, è più facile capire perché gli economisti si sentono così sulla difensiva di fronte alle sfide al Mito del Baratto, e perché continuano a raccontare la stessa vecchia storia, anche se la maggior parte di loro sa che non è vera. Se quello che stanno realmente descrivendo non è come noi ‘naturalmente’ ci comportiamo, ma piuttosto il modo in cui i mercati ci insegnano a comportarci – bene, chi, al giorno d’oggi, si assume la maggior parte dell’insegnamento? In primo luogo, gli economisti. La questione del baratto arriva al cuore non solo di ciò che è un’economia – la maggior parte degli economisti ancora insiste sul fatto che l’economia è essenzialmente un vasto sistema di baratto, dove i soldi sono un mero strumento (una posizione tanto più singolare, ora che la maggior parte delle transazioni economiche al mondo è arrivata a consistere nel giocare in un modo o nell’altro con i soldi) [10] – ma anche, alla vera qualità dell’economia: è una scienza che descrive come gli esseri umani si comportano realmente, o è prescrittiva, un modo di informarli su come dovrebbero comportarsi? (Ricordate, le scienze generano ipotesi sul mondo che possono essere testate con delle prove e modificate o abbandonate se non dimostrano di prevedere quel che empiricamente accade).
Oppure l’economia è invece una tecnica per operare all’interno di un mondo che gli economisti si sono in gran parte creati? O, come sembra per tanti degli Austriaci, è una specie di fede, una verità rivelata incarnata nelle parole di grandi profeti (come Von Mises) che devono, per definizione, essere corrette, e le cui teorie devono essere difese a prescindere da qualsiasi realtà empirica vi venga gettata contro – fino al punto di generare immaginari e sconosciuti periodi storici in cui qualcosa di simile a ciò che è stato descritto originariamente ‘deve avere’ avuto luogo?
FONTI
[1] Jevons, W. Stanley, Money and the Mechanism of Exchange. New York: Appleton and Company, 1885, and Menger, Carl, “On the origins of money.” Economic Journal 1892 v.2 no 6, pp. 239-55
[2] Humphrey, Caroline, “Barter and Economic Disintegration.” Man 1985 v.20: 48. Altri antropologi sono andati anche oltre, ad esempio Anne Chapman, “Barter as a Universal Mode of Exchange.” L’Homme 1980 v22 (3): 33-83), sostiene che se il baratto puro viene definito solo in relazione alle cose, e non alle persone, non è chiaro se sia mai esistito – come infatti mostrano i casi citati al termine di questo saggio.
[3] Gregory, Chris, Gifts and Commodities. New York: Academic Press (1982): pp. 48-49. Sulle economie del dono, il testo classic è Mauss, Marcel, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques.” Annee sociologique, 1924 no. 1 (series 2):30-186. Sulla sfera dello scambio in generale su veda Bohannan, Paul “Some Principles of Exchange and Investment among the Tiv,” American Anthropologist 1955 v57:60-67; Barth, Frederick, “Economic Spheres in Darfur.” Themes in Economic Anthropology, ASA Monographs (London, Tavistock) 1969 no. 6, pp. 149-174; cf Munn, Nancy, The Fame of Gawa: A Symbolic Study of Value Transformation in a Massim (Papua New Guinea) Society, 1986, Cambridge, Cambridge University Press, and Akin, David and Joel Robbins, “An Introduction to Melanesian Currencies: Agencies, Identity, and Social Reproduction” in Money and Modernity: State and Local Currencies in Melanesia (David Akin and Joel Robbins, editor), pp. 1-40. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press.
[4] Servet, Jean-Michel, 1994 “La fable du troc,” numero speciale della rivista XVIIIe siècle, Economie et politique, n°26: 103-115
[5] Il lavoro classico sull’economia dei campi per prigionieri di guerra, da dove deriva questa argomentazione, è Radford, R. A., “The Economic Organization of a POW Camp.” Economica 1945 v.12 (48): 189-201.  C’è un’eccellente critica agli assunti che vi soggiacciano in Ingham, Geoffrey, “Further Reflections on the Ontology of Money,” Economy and Society 2006 v 36 (2): 264-65, che nota tra le altre cose l’ovvio punto che l’intero ambiente del campo era stato creato e sovvenzionato da un’organizzazione burocratica che soddisfaceva tutte le necessità reali – cibo, riparo ecc – attraverso una distribuzione amministrativa.
[6] Hudson, Michael,“The Development of Money-of-Account in Sumer’s Temples.” In Creating Economic Order: Record-Keeping, Standardization and the Development of Accounting in the Ancient Near East (Michael Hudson and Cornelia Wunsch, editors, 2004), pp. 303-329. Baltimore: CDL Press.
[7] Grierson, Phillip, “The Origins of Money.” In Research in Economic Anthropology 1978, v. I, pp. 1-35. Greenwich: Journal of the Anthropological Institute Press.
[8] Levi-Strauss, Claude, “Guerre et commerce chez les Indiens d’Amérique du Sud.” Renaissance. Paris: Ecole Libre des Hautes Études, 1943 vol, 1, fascicolo 1 et 2.
[9] Berndt, Ronald M., “Ceremonial Exchange in Western Arnhem Land.” Southwestern Journal of Anthropology 1951 v.7 (2): 156-176.
[10] Si veda per esempio Dillard, Dudley, “The Barter Illusion in Classical and Neoclassical Economics”, Eastern Economic Journal 1988v14 (4):299-318.